1. Premessa.
Il termine Mobbing (to mob) indica una situazione di aggressione, esclusione ed emarginazione di un lavoratore, da parte di colleghi e superiori. Questa situazione porta il soggetto vessato ad uno stato di malessere, disagio e stress, che, in alcune situazioni, può determinare l’insorgere di malattie.
I soggetti coinvolti in questo fenomeno sociale sono: il soggetto mobbizzato, ovvero la vittima del mobbing, colui che subisce le persecuzioni e il c.d. mobber, ovvero il soggetto agente che compie sistematicamente gli atti di violenza psicologica e non, nei confronti del collega/subordinato/superiore.
2. Le tutele del nostro Ordinamento.
Attualmente il mobbing è privo di un’autonoma disciplina legislativa, ma, in ogni caso, il nostro ordinamento prevede delle forme di tutela, soprattutto grazie alla dottrina e alla giurisprudenza che, negli ultimi anni, hanno riconosciuto l’importanza ed il peso di questo fenomeno, anche da un punto di vista giuridico e, in particolare, penale.
Infatti, non esistendo oggi un reato di mobbing, per garantire una tutela alle vittime è necessario ricorrere a figure di reato già esistenti nel Codice penale e che sono compatibili con questo fenomeno, come ad esempio:
- il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., in relazione al quale la Corte di cassazione ha affermato che “il concetto di maltrattamenti è molto simile a quello del mobbing, perché impone un’abitualità di condotta tale da rendere insopportabile il contesto di vita, familiare o di lavoro”. (Cass., Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416). Il ragionamento della Suprema Corte introduce il concetto per cui il contesto interpersonale di un ambiente di lavoro possa dirsi para – familiare, tratto che la Corte intende caratterizzato “per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra, in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare e caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità”.
Pertanto, ai fini della sussumibilità del mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti, l’esistenza di una situazione para-familiare e di uno stato di soggezione e subalternità del lavoratore, va verificata avendo riguardo alle dinamiche relazionali in seno all’azienda tra datore di lavoro e lavoratore.
- Altra fattispecie di reato nella quale è possibile sussumere la condotta del mobber è il reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p.; sul punto è intervenuta una recente pronuncia della Corte di cassazione (n. 12827/2022) che ha stabilito che “il Mobbing integra il reato di atti persecutori, quando determina nella vittima una delle conseguenze previste dall’art. 612 bis del Codice penale”, ovvero un perdurante stato di ansia o di paura, un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, ovvero costringere il mobbizzato ad alterare le proprie abitudini di vita.
Accanto all’attuale tutela penalistica, è pacifico che il mobbizzato abbia diritto al risarcimento del danno cagionato dal mobber. In particolare, il nostro sistema civile prevede due tipologie di danno: quello patrimoniale, nel quale rientrano, ad esempio, le spese mediche sostenute dalla vittima, l’impoverimento della capacità professionale, la perdita del posto di lavoro, nonché quello non patrimoniale che si identifica nel danno biologico, morale ovvero esistenziale.